23 MAGGIO 2016
Il ruolo delle donne nello Stato Islamico
DI Giulia Conci

Pur essendo un gruppo sostanzialmente dominato dalla componente maschile, all’interno dello  Stato Islamico (IS o Daesh) le donne possiedono un ruolo molto importante, anche se meno evidente rispetto alle loro controparti.

Le donne che decidono di aderire allo Stato Islamico sono soprannominate in Occidente le “spose della jihad”, mentre loro preferiscono farsi chiamare con il termine arabo “muhajirat”, letteralmente le “migranti”. Secondo diverse stime, da agosto 2015 sarebbero almeno 550 donne occidentali e 700 tunisine ad aver abbandonato il proprio Paese per raggiungere i territori di Siria e Iraq. Una volta arrivate, le donne svolgono un ruolo strumentale nella creazione e nel mantenimento della nuova società del Califfato. Gli esponenti ai vertici di IS riconoscono il loro contributo tanto che nei discorsi del leader al-Baghdadi non mancano incitamenti rivolti a compiere immediatamente la hijra, intesa come loro dovere religioso.

Esistono infiniti fattori che agiscono sulla decisione di migrare ed è quindi impossibile ricondurre tutte le donne a rischio di radicalizzazione sotto un unico profilo. Dire che l’unico motivo che le spinge a trasferirsi sia il diventare mogli per jihadisti è riduttivo.

Tra le principali motivazioni alla base della radicalizzazione e dell’adesione ad IS  compare il senso di oppressione e marginalizzazione avvertito soprattutto dalle donne musulmane che vivono in società occidentali. La mancata integrazione, combinata alla percezione di non poter esprimere liberamente la propria religione, aumenta l’impressione di essere isolati e non compresi. Di conseguenza, l’idea di recarsi in un territorio amministrato esclusivamente attraverso la sharia le convince che la marginalizzazione sociale possa essere eliminata e sostituita dalla pine integrazione in una comunità caratterizzata da  un forte senso di appartenenza.

Ci sono anche donne convertite fra chi migra in Siria. La decisione di rinnegare i valori di una società che garantisce maggiori libertà al genere femminile è spesso dettata dalla voglia di soddisfare un bisogno relazionale amoroso non perfettamente appagato in Occidente. Infatti, molte giovani ragazze sono partite per l’IS con la promessa di sposare un buon marito, fatta da reclutatrici in rete. Una volta arrivate nel Califfato, sono ospitate in ostelli che garantiscono vitto e alloggio fino all’arrangiamento del matrimonio. Lo Stato Islamico dissemina l’idea che sposare un marito forte e coraggioso porti alla valorizzazione della donna stessa. Sono incoraggiate a considerare l’eventuale morte del marito come un onore.

Questa visione utopica dell’Islam le rende determinate e disposte a far fronte alle difficoltà del viaggio pur di raggiungere l’IS. Le donne già trasferitesi partecipano alla creazione di questa narrativa utopica condividendo online materiale riguardo ai vantaggi di vivere nel Califfato, dove è possibile soddisfare il bisogno d’appartenenza mai appagato nei Paesi del Kufr, termine arabo per indicare persone che non credono in Dio.  Conseguentemente, la sensazione che l’Ummah ia sotto attacco le sollecita a rispettare il dovere religioso di partecipare a modo loro alla jihad. Compiere la hijra e sposare un buon combattente di Allah è inteso come possibilità di svolgere un ruolo attivo nella nuova società del Califfato.

Lo Stato Islamico ha sviluppato un’efficace campagna mediatica impiegando le stesse risorse per reclutare uomini e donne. Un’intera parte del corpo propagandistico, nota come Zora Foundation, attiva da Ottobre 2014, si dedica esclusivamente alle donne, intese sia come destinatarie sia come mittenti della propaganda. Una volta trasferite nel Califfato, sono sollecitate ad essere parte integrante della campagna mediatica per invogliare altre donne a compiere la hijra. I social media sono sfruttati per condividere sia consigli pratici su cosa portare e come affrontare il viaggio per raggiungere la Siria sia su cosa cucinare per rendere contento il proprio marito jihadista. La stessa rivista ufficiale dell’IS (Dabiq) dedica ampio spazio alla scrittrice Umm Sumayyah al-Muhajirah al fine di aumentare i contenuti rivolti ad un pubblico femminile.

Il tentativo di questa campagna è di far sembrare la scelta di aderire all’estremismo islamico come un normale cambiamento di stile di vita. Tra i profili femminili più popolari c’è Aqsa Mahmood, che scrive sotto lo pseudonimo di Umm Layth. Studentessa di radiologia di 21 anni a Glasgow, una volta giunta in Siria è diventata tra le più attive in rete incoraggiando altre musulmane a lasciare tutto per diventare mogli di jihadisti. Una tra queste è stata l’italiana Maria Giulia Sergio, oggi Fatima Az-Zahra, diventata la più nota jihadista italiana. Il suo processo di radicalizzazione è stato accelerato una volta entrata in contatto virtuale con Bushra Haik, nata a Bologna ora residente in Arabia Saudita, considerata pericolosa reclutatrice per lo Stato Islamico. Sentendosi via Skype per lezioni di arabo e sul Corano, l’indottrinamento è stato così efficace da culminare con il trasferimento di Maria Giulia e del marito in Siria. 

Il messaggio ideologico dietro l’esortazione a migrare riguarda il ruolo assunto dalle donne nell’assicurare la longevità del Califfato. Oltre ad occuparsi di proselitismo e reclutamento, il loro compito primario è prettamente di natura casalinga. Essere buone mogli e madri è d’estrema importanza nel contribuire alla creazione della futura generazione di jihadisti e quindi al mantenimento nel tempo dello Stato Islamico. Oltre al ruolo di casalinghe, le donne del Califfato sono esortate a diventare infermiere, insegnanti e traduttrici.

Per ora a nessuna donna è permesso di prendere parte ai combattimenti ma sono state create due brigate note come al-Khansaa e Umm al-Rayan aventi il compito di vigilare le città di Raqqa e Mosul e individuare le infedeli. Operano come polizia morale, munite di kalashnikov e acidi per far rispettare la legge e punire qualsiasi comportamento ritenuto contrario all’Islam.

La brigata di al-Khansaa è responsabile di aver fatto circolare, a fine gennaio 2015, su diversi forum online, un documento di circa 30 pagine in arabo intitolato “Le donne dello Stato Islamico: un manifesto e un caso di studio”. Nel testo compare una lunga lista di qualità, doveri e regole che una buona donna musulmana deve rispettare, tra cui essere pronta al matrimonio già dai nove anni di età. Non mancano serie di critiche al mondo occidentale, accusato d’avere creato molta confusione sul vero ruolo della donna ormai sconfinato in ambiti prettamente maschili.

Dal momento della sua autoproclamazione, IS ha mostrato d’aspirare a obiettivi maggiori rispetto all’esclusiva disseminazione del terrore. Quale organizzazione terroristica volta a creare uno Stato ed un’amministrazione basata sulla sharia, Daesh ha fatto sì che le donne assumessero un ruolo importante per la formazione di una società funzionante. Quali guardiane della longevità del Califfato, hanno il compito di essere buone mogli e educatrici delle future generazioni di jihadisti. Pur non occupandosi del fronte militare, offrono un importante contributo nel reclutamento di altre donne. Questo trend non sembra arrestarsi, anzi soprattutto le tunisine unitesi allo Stato Islamico sembrano poter fungere da calamite per attrarre un gran numero di donne provenienti da altri Paesi islamici tra cui la Libia.

Lo Stato Islamico ambisce a costruire una società funzionante ed è cosciente di come la figura femminile sia centrale per raggiungere questo obiettivo. Per tale motivo, il ruolo della donna è vitale, soprattutto quando il Califfato crede che la guerra in atto continuerà e saranno quindi necessario coltivare le nuove generazioni di combattenti.  

Oltre al lato “riproduttivo”, per quanto riguarda le giovani convertite occidentali compare un forte elemento romantico. La continua sensazione d’essere estranee nel proprio Paese le rende vulnerabili alla promessa di prendere parte a una società perfetta in cui coraggiosi mariti e l’intera comunità si prende cura di loro, non solo dal punto di vista morale ma anche economico. Quest’esigenza di soddisfare un senso di appartenenza non appagato in Occidente le motiva a migrare nel Califfato.

In conclusione, ciò che influenza maggiormente è la combinazione del premio ultraterreno per aver compiuto la hijra, la possibilità di partecipare alla realizzazione di una società islamica perfetta e l’appagamento derivante dalla percezione di un forte senso di appartenenza.