12 LUGLIO 2016
L’avanzare dell’Islam radicale in Bosnia
DI Jacopo Pizzi

 

Con quasi 400 combattenti, il piccolo Stato di Bosnia-Erzegovina vanta il più alto numero di foreign fighters balcanici che, dal 2011 ad oggi, si sono uniti allo Stato Islamico. Per capire le cause di questo triste primato, occorre tornare indietro con la memoria ai tragici fatti che sconvolsero il Paese all’inizio degli anni Novanta.

Dopo una convivenza durata secoli tra Cattolici, Ortodossi e Musulmani, nel 1992 cominciò in Bosnia una sanguinosa guerra tra le tre parti, che oggi, a distanza di oltre vent’anni, ha lasciato la regione ancora instabile. A seguito della morte del Maresciallo Tito, in Serbia si diffuse il mito che la Federazione di Jugoslavia fosse una struttura politica ideata per incatenare la Serbia ortodossa ed impedirle di assumere il proprio ruolo di leadership nei Balcani. Quando la Croazia proclamò la propria indipendenza, ne emerse un conflitto con Belgrado, il quale si spostò presto in Bosnia, dove vivevano comunità sia Serbe che Croate. Durante il conflitto si sono registrati molti casi di crimini contro l’umanità ai danni della popolazione, in particolare ai danni della comunità bosniaca musulmana, che sono consistiti in deportazioni, esecuzioni sommarie e stupri di gruppo.

Gli accordi di pace di Dayton nel 1995 hanno istituito la Federazione di Bosnia-Erzegovina, di fatto una confederazione divisa in due entità (la Federazione croato-musulmana e la Repubblica Serba) alle quali sono demandati poteri esecutivi importanti, come quello riguardante la sicurezza e la lotta al terrorismo. Questa confederazione, guidata da una presidenza composta da tre persone (uno eletto dai croati, uno dai bosniaci, e uno dai serbi), è molto debole dal punto di vista politico, sia a causa dell’assetto costituzionale, improntato esclusivamente sulla rappresentatività e non sulla governabilità, sia per le diffidenze e i rancori tra le tre etnie, che rendono impossibile il passaggio di informazioni e la collaborazione tra le due entità.

A rendere il quadro ancora più instabile c’è la pesante crisi economica del Paese. La guerra ha dimezzato la produzione industriale, che ancora oggi risulta al di sotto del livello antecedente al conflitto. Il processo di privatizzazione attivato dal governo centrale dal 1995 ad oggi, inoltre, anziché portare ad un miglioramento del processo produttivo, ha condotto al fallimento degli enti privatizzati stessi. La recente crisi economica dei principali partner commerciali del Paese, infine, e l’ingresso della Croazia nell’Unione Europea, al quale ha fatto seguito il blocco delle importazioni di molti prodotti a base di carne e latte, hanno peggiorato la situazione. Ad oggi, il tasso di disoccupazione è del 28%, mentre oltre un giovane su due è senza lavoro, e una famiglia su cinque vive in povertà.

Alla pesante crisi economica, politica e sociale del Paese, bisogna aggiungere una crisi nei rapporti tra le diverse comunità etnico-culturali, che si è originata a seguito della guerra civile. Prima della guerra, le differenti comunità religiose condividevano spesso il medesimo territorio, rispettandosi a vicenda. La guerra, nata a seguito della propaganda nazionalista portata avanti dalle elite politiche Serbe e Croate, e diffusa ancora oggi nel dibattito politico dei due Paesi, ha influenzato enormemente la visione del mondo della popolazione, in particolare quella dei più giovani, cresciuti durante il conflitto. Questi giovani, che non possono ricordarsi del tempo in cui le differenti etnie convivevano nel medesimo territorio, sono cresciuti guardando ai Serbi e ai Croati, entrambi cristiani, come a potenziali nemici.

La guerra ha inoltre lasciato un’altra pesante eredità. A difesa della causa dei bosniaci musulmani, durante il conflitto si è registrato un significativo afflusso di foreign fighters finanziati da organizzazioni non governative dell’Arabia Saudita, del Qatar e dello Yemen, come la fondazione “Al Haramain”, che sostenne dei battaglioni di combattenti afgani, o la fondazione “Al Mouwafaq”, che finanziò la Brigata Mouwafaq, composta da miliziani egiziani. Al termine del conflitto, gran parte di questi combattenti, caratterizzati da una visione religiosa radicale, rimasero in Bosnia, spesso sposando donne bosniache e diventando quindi cittadini del Paese.

Anche le organizzazioni umanitarie islamiche rimasero sul territorio, finanziando la ricostruzione del Paese e delle moschee, e sostituendo lo Stato nel sostegno delle classi più deboli, soprattutto nei centri rurali. Nelle campagne del Paese, inoltre, molti cittadini sauditi hanno acquistato terreni, e hanno cominciato a frequentare la zona con finalità turistiche, creando un indotto occupazionale legato alla comunità musulmana e alla moschea del luogo. Grazie al sostegno economico dell’Arabia Saudita e ai predicatori provenienti dai Paesi del medio oriente, dopo la guerra cominciò a diffondersi nel Paese il salafismo, ovvero quella scuola di pensiero islamico che promuove una interpretazione del Corano ultra-ortodossa, che risale alle prime tre generazioni, quando l’Islam era “puro” e non sporcato dall’influenza della cultura occidentale. Il salafismo, che si oppone alla tradizione musulmana bosniaca, molto meno restrittiva e più moderata, ha continuato a diffondersi capillarmente soprattutto tra le giovani generazioni, le quali, essendo cresciute durante la guerra e subendo più degli altri il peso della crisi economica e della disoccupazione, sono più propense ad accogliere il messaggio radicale rispetto a chi è cresciuto durante la Federazione di Jugoslavia.

L’insediarsi del fondamentalismo islamico in Bosnia non sarebbe stato possibile, o almeno non sarebbe stato così agevole, se il contesto politico ed istituzionale, caratterizzato da una paralisi dei decisori politici e dalla corruzione dell’apparato pubblico (la Bosnia è all’80° posto nella classifica di Transparency), non l’avesse agevolata. Infatti, la Repubblica Serba e la Federazione Croato-Musulmana, alle quali secondo gli accordi di Dayton è demandata la lotta al terrorismo, si rifiutano di collaborare, arrivando anche ad ostacolarsi a vicenda: è il caso dell’operazione Ruben, lanciata dalla polizia della Repubblica Serba lo scorso anno, che ha portato all’arresto di 31 potenziali terroristi, ai quali Bakir Izetbegovic, membro musulmano della Presidenza della Bosnia-Erzegovina, ha pagato le spese legali, accusando formalmente le autorità della Repubblica Serba di approfittare dell’emergenza terrorismo per compiere una nuova pulizia etnica.

L’assenza di uno stato che combatta seriamente il fenomeno ha permesso la costruzione di campi di addestramento e di reclutamento dello Stato Islamico. Secondo alcune fonti, sarebbero presenti alcuni campi di addestramento sorti sui terreni acquisiti da cittadini sauditi e famose personalità wahabite e salafite del Paese, tra cui l’imam Bilal Bosnic (attualmente in carcere); Bosnic è uno dei principali reclutatori dello Stato Islamico in occidente, e secondo fonti dell’intelligence nel 2014 avrebbe visitato numerosi centri di culto in Italia, in particolare a Bergamo, Cremona, ma anche a Roma, per incontrare giovani musulmani. Negli ultimi anni, la polizia è intervenuta più volte in queste zone, ponendo fine alla loro attività. Tuttavia il loro intervento, senza un piano politico di lungo periodo a sostegno, non è bastato a sradicare il fenomeno. Così, ad esempio, quando la polizia è intervenuta nel villaggio di Gornja Maoca, nel nord del paese, molti esponenti dello stato islamico hanno acquistato terreni ad Osve, poco più a sud, creando nuovi centri di addestramento.

La situazione della Bosnia è particolarmente delicata. Il difficile dopoguerra ha fatto si che molti giovani smettessero di aver fiducia nelle istituzioni dello Stato e cominciassero a guardarsi intorno in cerca di altri punti di riferimento, trovandoli nelle moschee finanziate dall’Arabia Saudita e gestite da imam radicali. Tali giovani, inoltre, essendo cresciuti in un contesto di guerra, hanno potuto sviluppare più facilmente una “mentalità a codice binario”, la quale rende più facile la conversione ad ideologie o dottrine religiose radicali.

Ad oggi, la Bosnia è un terreno estremamente fertile per lo Stato Islamico. Al momento l’IS utilizza tale area come un centro di reclutamento e addestramento per i miliziani provenienti dai Balcani e dal resto dell’Europa e destinati alla guerra in Medio Oriente. Tuttavia il ruolo della regione potrebbe diventare ancora più centrale in un futuro prossimo. La Bosnia, a differenza degli altri paesi in cui il radicalismo islamico si è diffuso, è un paese europeo, separato dall’Europa da confini politici, non naturali. Inoltre, molti bosniaci musulmani sono emigrati in Europa, scappando dalla guerra e dalla fame, senza riuscire ad integrarsi, nella maggior parte dei casi, con le comunità autoctone, ma anzi vivendo molto spesso ai margini della società occidentale, diventando perciò propensi ad accogliere interpretazioni radicali della religione. Per queste ragioni, il rischio che la Bosnia diventi un avamposto del terrorismo, da cui sferrare attacchi nel cuore dell’Europa, sfruttando, anche, la rete di contatti forniti dalla comunità bosniaca, c’è ed è concreto.