05 DICEMBRE 2016
Radicalizzazione, deradicalizzazione e jihadismo autoctono in Danimarca
DI Lorenzo Alberini

Nascosta all’ombra dei devastanti attentati terroristici in Francia e in Belgio, anche la Danimarca fa i conti con l’estremismo islamico autoctono. Lo scorso 22 giugno, un giovane di ventiquattro anni dalla doppia nazionalità danese e turca è stato condannato a Copenaghen per essersi recato in Siria nel 2013 a combattere per lo Stato Islamico. Ad aprile altri quattro uomini erano già stati arrestati nell’area della capitale danese con la stessa accusa. Nel frattempo i servizi d’intelligence danesi hanno rivelato numeri preoccupanti: la metà dei 125 foreign fighters partiti per la Siria sono già rientrati in Danimarca.
Il Paese è in allerta fin da quando, poche settimane dopo la strage nella redazione di Charlie Hebdo a Parigi, un ventiduenne nato e cresciuto in Danimarca ha seminato il terrore a Copenaghen sparando prima ad un incontro sulla libertà di espressione, poi alla più grande sinagoga della capitale danese.
La presenza di sacche di jihadismo, tuttavia, non risale solo agli ultimi due anni, ma va ricercata a partire dagli anni 90. È in questa fase che un piccolo gruppo di combattenti egiziani, terminata la lotta antisovietica in Afghanistan, trova rifugio in Danimarca. Fra questi, spicca la figura di Abu Talal, implicato nell’assassinio del presidente egiziano Anwar Sadat e coinvolto nella resistenza dei mujahideen afgani. Tra le fila degli estremisti figurano anche alcuni attivi sostenitori del terrorismo nordafricano, in particolare del GIA (Gruppo Islamico Armato) algerino.
Dopo l’11 settembre la scena cambia significativamente. La rete egiziana e quella nordafricana lasciano il campo a una nuova generazione di militanti, questa volta autoctoni. Nel 2005 vengono arrestati alcuni cittadini danesi, per la maggior parte di origini arabe, con diversi contatti con il terrorismo islamico in Europa. Nel giro di pochi anni, la polizia danese riuscirà a troncare il primo collegamento diretto tra estremisti danesi e al-Qaeda in Pakistan. Tuttavia, un evento imprevisto porta il Paese nel mirino del terrorismo.
Il 30 settembre 2005 il quotidiano danese Jyllands-Posten pubblica dodici vignette satiriche su Maometto. La scelta editoriale scatena l’indignazione di molti musulmani, inclusi gruppi terroristici internazionali quali al-Qaeda e al-Shabaab. Tra il 2005 e il 2008 le ambasciate danesi in Iran, Libano, Siria e Pakistan vengono attaccate. Tra il 2008 e il 2010 vengono compiuti sei tentativi di colpire il Jyllands-Posten o i suoi vignettisti. Ancora una volta, alcuni dei militanti portano il passaporto danese.
La galassia radicale in Danimarca non presenta una leadership coesa, né un unico movimento. Il ruolo più controverso resta senza dubbio quello dell’Hizb ut-Tahrir, un’organizzazione politica internazionale che mira all’istituzione del Califfato e all’imposizione della Sharia in tutto il mondo musulmano. La sezione danese conta circa 150 membri attivi e raduna oltre un migliaio di persone ai propri eventi. In passato ha incitato al jihad in difesa dei musulmani in Afghanistan e Iraq, dove i militari danesi sono impegnati nel contesto delle missioni internazionali di stabilizzazione. Anche altri gruppi di attivisti, come “La chiamata all’Islam” e “La società islamica”, partecipano al dibattito pubblico e politico, ma a differenza dell’Hizb ut-Tahrir prendono esplicitamente le distanze dalla violenza.
Gli episodi legati al terrorismo islamico degli ultimi anni hanno spinto molti a interrogarsi sulle cause della radicalizzazione dei giovani danesi. Se da un lato la connessione tra povertà, educazione e terrorismo è labile, dall’altro lato l’emarginazione di certo non semplifica l’integrazione tra la minoranza islamica e i danesi “etnici”. Inoltre, la difficile condizione sociale di molti musulmani rappresenta un facile pretesto per chi proclama di combattere in nome dei più svantaggiati.
Quel che più conta, negli ultimi quindici anni la presenza dei musulmani nel Paese è piombata al centro del dibattito politico. In particolare, il Partito Popolare Danese, conservatore ed euro-scettico, ne ha fatto una questione di sicurezza nazionale. Grazie al suo ruolo essenziale nel sostenere il governo di centro-destra (2001-2011), il partito ha ottenuto la promulgazione di leggi tra le più restrittive in Europa per regolare l’immigrazione e per riconoscere la cittadinanza danese. Il rischio è che il clima politico polarizzato aumenti le tensioni e alimenti reciproca intolleranza. La propaganda e il discorso politico islamista fanno breccia più facilmente in una fascia della popolazione che percepisce crescente ostilità verso di sé.
La crescita dell’estremismo negli ultimi quindici anni, in Danimarca come in moltissimi altri Paesi europei e mediorientali, è stata favorita ulteriormente da un cambiamento ideologico. O per meglio dire, un cambiamento d’interpretazione dello scontro. Nel corso della guerra fredda, i conflitti del mondo arabo scaturivano principalmente dalla lotta per l’indipendenza nazionale o dalla competizione egemonica tra diversi soggetti statali. La resistenza antisovietica in Afghanistan segna una svolta, richiamando migliaia di volontari pronti a difendere la Umma, la comunità islamica, aggredita. L’interpretazione dominante negli ambienti radicali afferma ora che combattere il jihad è un obbligo individuale di ogni credente e l’occasione per dimostrarlo si ripresenta presto in Bosnia, Somalia, Cecenia.
Con l’11 settembre e la reazione americana in Afghanistan e Iraq, il puzzle si completa. La propaganda jihadista vende la guerra al terrorismo come una guerra di religione contro l’islam, i mass media veicolano in tempo reale messaggi e immagini della guerra, il costo sempre più ridotto del trasporto internazionale rende possibile viaggi prima impensabili per conoscersi, addestrarsi, combattere in nuovi teatri. Si tratta di cambiamenti strutturali che coinvolgono ed espandono i focolai islamisti in Europa e che si traducono in una nuova e potente motivazione, che coinvolge anche chi non aveva mai avuto una ragione personale per combattere. Vale a dire, anche chi è nato e cresciuto in una tranquilla democrazia del Nord Europa. La composizione etnica del jihad si fa più varia, le interconnessioni aumentano.
Per il radicalismo islamico danese, le relazioni con l’esterno prendono un’importanza fondamentale per la mobilizzazione degli aspiranti jihadisti. Tra i contatti maturati nel corso degli anni figurano leader del calibro di Ayman al-Zawahiri, Abu Musab al-Zarqawi, Anwar al-Awlaki e lo “sceicco cieco” Omar Abdel Rahman. I gruppi terroristici apparsi in Danimarca a partire dagli anni 2000 vantano connessioni in Bosnia, Pakistan, Yemen.
Alla crescente minaccia per la sicurezza nazionale, lo Stato ha risposto con un approccio soft e centrato sull’obiettivo di prevenire la radicalizzazione dei propri cittadini o, quando questo non è più possibile, reintegrarli nel tessuto sociale. Nel primo caso, istituzioni e comunità collaborano per individuare quegli individui che mostrano i primi segni di radicalizzazione, come uno stile di vita più appartato, un aumento della religiosità o un cambiamento nel modo di vestire. Nel secondo caso, spesso si tratta di giovani di ritorno dalla Siria dei quali non si conoscono le intenzioni. In entrambe le circostanze, la polizia locale opera insieme a una rete di professionisti (psicologi, insegnanti, allenatori) al fine di informarsi in modo discreto e, se necessario, contattare i soggetti radicali per comprendere la loro situazione e reinserirli nella società.
L’approccio securitario e criminalizzante adottato in molti Paesi lascia spazio a un sistema che si prende cura dei singoli individui, fornendo loro una ragione per restare e qualcosa da perdere, piuttosto che una punizione esemplare. Chiaramente esistono dei limiti: chi ha commesso crimini o violazioni dei diritti umani non resta impunito. Il sistema è nato nel 2007 nella città di Aahrus, seconda per dimensioni in Danimarca. Dopo aver implementato il programma nel 2012 per rispondere alle ripercussioni della guerra civile siriana, oggi le autorità municipali affermano di avere arginato nettamente la deriva radicale dei giovani musulmani, riducendo quasi completamente il numero di foreign fighters che partono per la Siria.
Nel 2009 il governo danese ha pubblicato un primo piano d’azione, che ha portato buoni risultati sul piano della lotta alla radicalizzazione interna. Tuttavia, l’irrompere della guerra in Siria e il fenomeno dei foreign fighters ha costretto il governo a stabilire ulteriori iniziative. Il nuovo piano d’azione (2014) prevede un maggiore coinvolgimento delle autorità locali, nuovi strumenti per combattere la propaganda jihadista online, una collaborazione internazionale rafforzata per prevenire la diffusione dell’estremismo anche al di fuori del Paese e la mobilitazione della società civile e delle famiglie per limitare l’impatto di propagandisti e reclutatori attraverso il dialogo.
L’attività jihadista in Danimarca nel complesso è limitata, ma apparentemente in crescita. Il doppio attacco a Copenaghen nel febbraio 2015 ha suonato come un campanello d’allarme. L’attuale governo danese, eletto pochi mesi dopo l’attentato, ha dimostrato di voler rafforzare alcune misure coercitive. Queste comprendono leggi più restrittive all’immigrazione e un maggiore impegno militare del Paese nella lotta allo Stato Islamico. Per di più, nuove misure per ridurre la possibilità di recarsi all’estero per i cittadini danesi considerati a rischio radicalizzazione erano già state adottate dall’esecutivo precedente. Gli effetti prodotti nell’immediato futuro diranno se la monarchia scandinava, da anni impegnata in prima fila nella lotta contro la radicalizzazione dei giovani musulmani europei, è ancora un modello di successo.