10 FEBBRAIO 2015
La nascita di Qaedat al-Jihad e le implicazioni per l’insorgenza talebana in Pakistan
DI Francesca Manenti

Dopo oltre quattro mesi di silenzio, lo scorso 3 settembre Ayman Zawahiri, attuale leader di al-Qaeda, ha annunciato la nascita di una nuova branca afferente all’organizzazione terroristica, Qaedat al-Jihad. Con un’agenda focalizzata prettamente sull’imposizione della sharia nel sub-continente indiano (da cui l’acronimo al-Qaeda nel Subcontinente Indiano – AQIS), il nuovo gruppo si propone di riunire combattenti provenienti dall’India, dal Myanmar e dal Bangladesh e di stabilire in questi territori un’amministrazione ispirata al governo dei Talebani in Afghanistan, guidato dal mullah Omar, tra il 1996 e il 2001.

Emiro designato del gruppo è Asim Umar, ideologo jihadista da tempo vicino alla rete del terrorismo internazionale di matrice islamica ed esponente del Movimento dei talebani Pakistani (Tehrik-i-Taliban Pakistan – TTP). Originario del Punjab, Umar ha acquisito la propria formazione, nelle due principali scuole religiose integraliste pachistane, la Jamia Uloom-e-Islamia di Karachi e la Darul Uloom Haqqania nella provincia di Khyber Pakhtunkhwa, esperienza che gli ha permesso di entrare in contatto con gli ambienti più radicali del Paese. I primi contatti con il network qaedista sarebbero avvenuti, verosimilmente, durante gli anni in cui Umar ha militato nell’HuJI (Harkat ul-Jihad al-Islami), primo gruppo jihadista pachistano vicino alla leadership di al-Qaeda, attraverso il quale il nuovo emiro di AQIS avrebbe stabilito forti legami con le cellule dell’organizzazione presenti sul territorio pachistano. Più che un leader operativo, tuttavia, Umar è conosciuto per la sua attività di intellettuale e di esperto comunicatore: in un video di propaganda qaedista rilasciato lo scorso giugno, infatti, Umar aveva già ipotizzato la riunificazione sotto un’unica bandiera del territorio compreso tra l’Afghanistan e il Bangladesh, nel tentativo di trasformare la rievocazione di un glorioso passato in un’occasione per radicalizzare gli ambienti più vicini all’idea jihadista presenti in questi Paesi. Il suo impegno per la promozione del jihad internazionale è valso ad Umar il titolo non solo di responsabile della propaganda per il TTP, ma anche di “funzionario della sharia” in Pakistan per al-Qaeda.

La nomina di un trascinatore intellettuale invece che di un leader operativo della militanza sembra rispondere ad una chiara esigenza da parte di al-Qaeda di recuperare parte di quell’appeal e di quella capacità di persuasione mediatica, appannatisi in seguito alla morte di Bin Laden e mai recuperati a causa della mancanza di un leader carismatico in grado di raccoglierne l’eredità. In un momento in cui l’attenzione internazionale è sempre più focalizzata sulla minaccia rappresentata dallo Stato Islamico (IS) in Siria e in Iraq, la leadership qaedista ha cercato di correre ai ripari per scongiurare che il calo di popolarità registrato in questi ultimi mesi possa favorire ulteriormente il rafforzamento di IS come attore preminente nel panorama jihadista a livello globale. Se in passato, infatti, la forza delle immagini e l’abilità retorica di Bin Laden erano in grado di creare consensi intorno alla causa qaedista, ad oggi la potenza mediatica di IS permette al gruppo di riscuotere un successo tale da essere riconosciuto da molti combattenti di ispirazione islamista come il nuovo punto di riferimento per il terrorismo internazionale. Il ritrovamento, ad inizio settembre, di alcuni volantini propagandistici di IS a Peshawar, capoluogo della regione nord-occidentale di Khyber Pakhtunkhwa, in Pakistan, dunque, potrebbe aver spinto Zawahiri a cercare una soluzione per scongiurare che il gruppo di al-Baghdadi riesca ad allargare il proprio bacino di reclutamento anche al Pakistan e al vicino Afghanistan, regione da sempre considerata la roccaforte della leadership di al-Qaeda.

La possibile permeabilità del contesto pachistano al fascino di IS è favorita dal momento di profonda trasformazione che l’insorgenza talebana nel Paese sta attraversando da ormai quasi un anno. In seguito alla morte dell’ex leader Hakimmulah Mehsud, rimasto ucciso da un raid statunitense nelle Aree Tribali pakistane (Federal Administrative Tribal Areas – FATA) lo scorso novembre, infatti, le rivalità intra-tribali per designare il successore alla guida del gruppo hanno esacerbato le tensioni tra le diverse anime della militanza, con naturali conseguenze sulla coesione interna. Il nuovo leader, infatti, Mullah Fazlullah, è estraneo alle tradizionali enclave di potere di riferimento del TTP che, dalla sua nascita, ha sempre espresso ai propri vertice un membro della tribù Mehsud, originaria del Sud Waziristan nelle FATA. La designazione di Fazlullah, esponente della tribù Yusufzai e originario del distretto di Swat (nella provincia settentrionale di Khyber Pakhtunkhwa, quindi esterno alle FATA), dunque, non solo ha alterato i tradizionali equilibri di potere, ma ha soprattutto fatto venir meno quella legittimazione trasversale all’interno TTP, che aveva fino ad ora agevolato la convergenza di interessi tra i diversi gruppi ad esso afferenti. Ne sono risultate una serie di scissioni che, se da un lato hanno ulteriormente infittito il panorama insurrezionale in Pakistan, dall’altro hanno accentuato il momento di crisi attraversato dal TTP. Dopo la scissione, annunciata lo scorso maggio, dai seguaci di Said Khan Sajna, leader della militanza talebana in Sud Waziristan, infatti, a fine agosto anche Omar Khalid Khorasani, comandante talebano nell’Agenzia tribale di Mohmand, ha annunciato la propria fuoriuscita dal TTP e la formazione di un nuovo gruppo indipendente dalla leadership di Fazlullah, Jamaat-ul-Ahrar.

Il crescente frazionismo all’interno del TTP ha messo in evidenza l’esistenza di un cambio generazionale in corso tra le fila dell’insorgenza talebana nel Paese. Con la progressiva marginalizzazione dalle posizioni di potere delle tradizionali famiglie, quali quella dei Mehsud, lo scheletro portante del gruppo sembra ora essere formato da militanti più giovani, più indipendenti rispetto ai tradizionali legami con i gruppi operativi nel Paese e disponibili ad un maggior coinvolgimento dei propri militanti anche in operazioni oltreconfine. Ed è proprio la predilezione per un’agenda jihadista transnazionale a rappresentare il discrimine fondamentale tra la nuova e la vecchia generazione, quest’ultima maggiormente focalizzata a concentrare i propri sforzi all’interno delle FATA. Tale predisposizione potrebbe rendere la nuova leadership maggiormente sensibile al fascino e al richiamo del nuovo hub per il jihadismo internazionale, lo Stato Islamico, e indurla a cercare di rafforzare i propri contatti con il gruppo di al-Baghdadi per reperire mezzi, uomini e risorse, che il network qaedista non riesce più ad assicurare. Il recente plauso per il Califfato Internazionale da parte di Fazlullah, seguito di pochi giorni da una vera e propria dichiarazione di alleanza da parte del portavoce del TTP, Shahidullah Shahid, e di cinque comandanti talebani (rispettivamente delle Agenzie di Orkazai, di Kurram, di Kyber, a Peshawar e ad Hangu, città nella provincia di Khyber Pakhtunkhwa), sembra perfettamente esemplificare questa tendenza.

In questo contesto, la formazione di AQIS potrebbe risultare un fattore di fondamentale riequilibrio per le realtà jihadiste pachistane. L’apparente rafforzamento di al-Qaeda nel Paese, infatti, potrebbe non solo incrementare la capacità operativa dell’attuale generazione del TTP, scongiurando un ulteriore avvicinamento allo Stato Islamico alla ricerca di un prestigio che per troppo tempo l’organizzazione di Zawahiri non è più stata in grado di assicurare, ma anche cercare di recuperare quelle frange dissidenti che hanno scelto di fare un passo indietro rispetto al movimento dei talebani non tanto per divergenze nelle rispettive agende quanto perché in disaccordo con la leadership di Fazlullah. La possibilità di avvalersi del marchio qaedista, per quanto al momento risulti meno attraente ed evocativo rispetto al passato, infatti, potrebbe spingere i leader di queste nuove realtà a cercare un’intesa con il gruppo di Umar ed eventualmente trovare una nuova forma di collaborazione anche con il movimento dei talebani pachistani. Sotto il cappello di AQIS, dunque, potrebbero raccogliersi le diverse cellule jihadiste attualmente attive in Pakistan, con ovvie ripercussioni sulla stabilità interna.

La rinnovata presenza di al-Qaeda nella regione, dunque, sembrerebbe poter avere i suoi frutti principali proprio all’interno del territorio pachistano: il rinvigorimento dell’attività qaedista, infatti, potrebbe dare nuovo lustro alla causa jihadista nel Paese e, conseguentemente, accrescere la capacità di reclutamento dei gruppi all’interno della società pachistana, in particolare all’interno delle Aree Tribali e dell’adiacente provincia di Khyber Pakhtunkhwa, luoghi di rifugio storici per i gruppi militanti e le cellule qaediste operative nella regione. In questi territori, infatti, la composizione etnica della popolazione, in prevalenza di etnia pashtun, ha favorito, soprattutto nelle zone più rurali, lo sviluppo di un sistema sociale di stampo integralista, in cui la scolarizzazione di giovani e adolescenti è spesso affidata a scuole religiose gestite da leader talebani, che impartiscono un’educazione prettamente integralista e sovversiva rispetto all’autorità statale. Tale realtà favorisce inevitabilmente la formazione di nuove generazioni, che stanno ancora costruendo la propria educazione per inserirsi all’interno della società, più inclini ad un’ideologia di tipo radicale. La possibilità di trovare tra questi giovani nuove leve affascinabili, e affascinate, dalla causa jihadista rappresenta un vantaggio di non poco conto per la militanza pachistana. Oltre ai benefici legati ad aumento del numero di effettivi a disposizione per le operazioni, infatti, questi giovani potrebbero rappresentare anche un’importante chiave di accesso, e dunque uno strumento di penetrazione, per diverse realtà statali, in primis per le Forze Armate.

La possibile radicalizzazione di personale militare è permesso dallo stesso sistema di arruolamento: secondo quanto sancito dalla Costituzione, infatti, il reclutamento militare, possibile per i ragazzi a partire dai 16 anni, avviene su base volontaria, dunque senza una necessaria preparazione accademica, e prevede una ferma obbligatoria di almeno sei anni, durante la quale i militari acquisiscono competenze tecniche e, talvolta, specialistiche. In questo modo il comparto militare pachistano risulta più facilmente permeabile a nuove reclute, anche di formazione integralista, che si approcciano alla carriera militare per l’appetibilità dello stipendio garantito più che per un vero e proprio spirito di servizio, e che rimangono inevitabilmente più inclini a rispondere positivamente alla propaganda dei gruppi di ispirazione jihadista.

La diffusione della propaganda dell’insorgenza tra le Forze Armate, in realtà, non è un fenomeno affatto nuovo per il sistema pachistano. Già in passato, infatti, un gruppo operativo all’interno delle tre Forze Armate, e verosimilmente controllato dal servizio di intelligence pachistano (ISI), l’Idara tul Pakistan, gestiva il reclutamento di personale militare sensibile al messaggio jihadista. L’esperienza di questi soldati veniva utilizzata dall’ISI per ingrossare le fila dei combattenti destinati ad alimentare l’instabilità oltreconfine, in particolare in Kashmir e in Afghanistan. Tuttavia, la progressiva presa di coscienza da parte di alcuni membri che gli obiettivi di questo gruppo rispondevano agli interessi strategici dell’ISI, più che ad un autonomo progetto jihadista, ha progressivamente spinto i militari ad esso affiliati a cercare di svincolarsi dal controllo dell’istituzione di informazione dello Stato e a creare delle cellule indipendenti, sia nella struttura sia nell’agenda, rispetto al controllo dell’ISI. In un primo momento, i membri delle frange deviate all’interno delle Forze di sicurezza si dedicavano esclusivamente alle operazioni all’estero e reclutavano militanti tra la società civile, ai quali fornivano finanziamento, armi e informazioni, per condurre attacchi sul territorio nazionale. Tuttavia, a partire dal 2003, con il progressivo coinvolgimento dell’Esercito regolare pachistano nell’offensiva degli Stati Uniti contro i talebani, afghani e pachistani, nelle Aree Tribali, questi gruppi hanno iniziato a focalizzarsi anche all’interno del Paese e a considerare le Forze Armate obiettivi prioritari nella propria agenda. La sensibilità di questi militanti per la causa jihadista ha ben presto favorito il contatto tra le frange ribelli all’interno dei ranghi militari e il terrorismo internazionale di matrice qaedista. Un esempio significativo in questo senso potrebbe essere rappresentato dalla Brigata 313, il gruppo fondato da Ilyas Kashmiri, ex Colonnello delle Forze Speciali dell’Esercito pachistano. Considerato il braccio armato di al-Qaeda nel Paese, almeno fino alla morte del suo leader in un raid statunitense in Sud Waziristan nel giugno 2011, la Brigata ha riunto sotto un unico cappello membri dei talebani pachistani ed esponenti dei principali gruppi jihadisti operativi in Pakistan (Jaish-e-Mohammed, Jundullah, Lashkar-e-Taiba, Lashkar-e-Jhangvi, Harkat-ul-Jihad-al-Islami) e, grazie al suo leader, ha sempre avuto stretti contatti all’interno delle Forze di sicurezza di Islamabad.

Benché una rinascita della Brigata 313 appaia attualmente alquanto improbabile, tuttavia, un rinvigorimento della presenza di al-Qaeda nel Paese e il lustro che ne deriverebbe per la causa jihadista, potrebbe ora riaccendere questa tendenza. Se già in occasione dell’attacco al Jinna International Airport di Karachi, condotto lo scorso giugno da un commando composto da uomini del TTP e del gruppo qaedista dell’Islamic Movement of Uzbekistan (IMU), infatti, era apparsa sospetta la facilità con cui i militanti erano riusciti ad introdursi all’interno della struttura, il tentativo, poi fallito, di sequestrare una nave della Marina Militare al porto di Karachi, rivendicato sia dal TTP sia da AQIS nella seconda settimana di settembre, ha confermato la presenza di “insider” affiliati alla militanza tra il personale militare. Tale appoggio avrebbe dovuto consentire ai militanti di prendere il controllo della nave Zulfiqar, fregata destinata a prendere parte ad una coalizione multinazionale per il pattugliamento marittimo nell’Oceano Indiano, la Combined Task Force 150 (CTF-150), e di sfruttare la conoscenza dei militari a bordo riguardo al sistema d’arma montato sulla fregata per colpire, presumibilmente, una nave statunitense, di stanza nel Mar Arabico.

Una delle principali criticità per il Pakistan nei prossimi anni, dunque, potrebbe giungere proprio da una crescente e pericolosa radicalizzazione interna alle Forze Armate, tendenza presente ormai da più di vent’anni e che potrebbe conoscere nuovo vigore grazie al rilancio dell’attività qaedista nel Paese. Un’ eventuale riacutizzazione in questo senso rappresenterebbe un duplice fattore di criticità: innanzitutto, la collaborazione di personale interno alle Forze di sicurezza potrebbe consentire alla militanza talebana di accedere ad infrastrutture critiche quali porti e aeroporto, snodi strategici per per la circolazione di persone e di merci, e dunque dei flussi umani e commerciali, con pesanti conseguenze non solo sulla sicurezza interna ma anche sugli interessi strategici del Paese. In secondo luogo, la permeabilità delle Forze Armate alla propaganda jihadista consentirebbe alla militanza di indebolire, di fatto, l’unica realtà istituzionale in grado di contrastare, in modo più o meno efficace, l’insorgenza talebana nel Paese. Questo, da un lato, ridurrebbe l’effettiva capacità di risposta dell’apparato militare alla principale minaccia per la sicurezza nazionale pachistana; dall’altro, danneggerebbe considerevolmente l’immagine delle Forze Armate e potrebbe causare un forte senso di disaffezione da parte dell’opinione pubblica nei confronti dell’apparato militare. Il senso di diffidenza instillato da tale perdita di fiducia potrebbe spingere i rappresentanti civili delle istituzioni di Islamabad a guardare con sospetto l’interessamento dei vertici delle Forze Armate per alcuni dossier di interesse strategico per lo Stato e, dunque, a cercare di escludere l’establishment militare dalla gestione della cosa pubblica. Tuttavia, in un Paese in cui l’establishment militare non solo rappresenta la colonna portante della politica di Difesa nazionale ma esercita un’influenza assolutamente trasversale nell’agenda del governo, un eventuale tentativo di ridimensionare tale peso potrebbe deteriorare in modo significativo i delicati rapporti tra potere civile e militare in Pakistan, mettendo così in discussione non solo l’equilibrio istituzionale già di per sé fortemente precario, ma soprattutto la stabilità e, conseguentemente, la tenuta nel lungo periodo del governo stesso.