24 MARZO 2016
Significato e implicazioni degli attentati di Bruxelles
DI Marco Di Liddo

A poco più di 4 mesi dagli attentati di Parigi, il cuore dell’Europa e la città simbolo delle sue istituzioni è stata scossa da una nuova e devastaste sequela di attentati. Al di là delle rivendicazioni formali da parte dello Stato Islamico, la cui attendibilità strictu sensu lascia il posto ad un più efficace ed effettivo pragmatismo propagandistico, gli eventi di Bruxelles del 22 marzo 2016 potrebbero segnare un concreto punto di svolta nell’evoluzione del terrorismo jihadista autoctono europeo, sia sotto il profilo operativo sia, soprattutto, sotto quello politico e sociale.

Per quanto lo Stato Islamico abbia dichiarato che la sua azione è da considerarsi una rappresaglia per l’arresto di Abdelsalam Salah, il redivivo latitante degli attacchi di Parigi dello scorso 13 novembre, e per la cordata di arresti effettuata dalla polizia belga la scorsa settimana, la dinamica delle stragi lascia intendere che l’attacco possa essere stato organizzato e pianificato in precedenza e che l’arresto di Salah abbia funto da acceleratore degli eventi. Probabilmente, le cellule jihadiste belghe temevano che eventuali confessioni di Salah potessero offrire significativi indizi e benefici investigativi alle autorità di Bruxelles e, per questa ragione, hanno accorciato i tempi di un’azione già ampiamente premeditata.

In ogni caso, il primo e incontrovertibile dato che emerge dagli attentati all’aeroporto di Zaventem e alla stazione della metropolitana di Maelbeek è il filo rosso che li unisce alle stragi del teatro Bataclan e dello Stade de France nonché alla lunga latitanza (ben 4 mesi) di Abdelsalam Salah. Questo filo rosso è costituito dalla struttura e dal radicamento della filiera jihadista belga, sinora l’unica nella storia del terrorismo europeo di matrice salafita a compiere simili attacchi in così poco tempo e con un così alto grado di sofisticazione e, soprattutto, a garantire protezione e occultamento ad uno dei suoi membri per un così lungo periodo.

Innanzitutto, la metodologia dell’attacco offre segnali ben precisi. I commando jihadisti, come a Parigi, hanno colpito due obbiettivi quasi simultaneamente per inibire la capacità di reazione delle Forze Armate e di Polizia belghe e per massimizzare l’impatto psicologico dell’azione, spargendo panico e terrore incontrollati tra la popolazione. Tuttavia, rispetto agli eventi nella capitale francese, i terroristi hanno rinunciato alla tattica dell’assalto con armi automatiche (kalashnikov), optando per l’esclusivo impiego di attentatori suicidi e pacchi-bomba. Probabilmente, questa scelta è dettata da esigenze di tipo operativo legate al rafforzamento dei controlli di sicurezza e alla crescita nella difficoltà di muoversi in città con equipaggiamenti così vistosi. Tuttavia, ancora una volta, l’utilizzo di giubbotti o cinture esplosive e di esplosivi mette in evidenza l’expertise e il know how  tecnico acquisito dalla rete belga nonché la presenza sul territorio di covi e rifugi sicuri e ben sorvegliati, sia per lo stoccaggio del materiale sia per la fabbricazione degli esplosivi.

L’incremento capacitivo delle organizzazioni jihadiste belghe e la copertura offerta a Salah nei suoi mesi di latitanza permettono di centrare il cuore politico e sociale del problema della militanza radicale in Europa. Infatti, la filiera terroristica belga, per proteggere Salah e per disporre di una tanto articolata struttura logistica in alcuni quartieri di Bruxelles e in alcuni centri rurali minori del Paese, deve necessariamente godere del sostegno, della complicità o, quanto meno, dell’appoggio silenzioso di una larga porzione della popolazione islamica ivi residente. Un appoggio che permette di avere numerose basi operative, di spostare uomini ed equipaggiamenti e di contrastare la sorveglianza e il pattugliamento delle autorità di polizia.

In questo senso, si può provocatoriamente affermare che anche in Europa si è imposto il modello territoriale dello Stato Islamico, solo che, al posto di intere città, qui la rete jihadista controlla parti consistenti di quartieri periferici o disagiati piuttosto che fatiscenti complessi abitativi. A questo punto occorrerebbe comprendere quali siano i canali di finanziamento della rete jihadista autoctona europea, quanto essi si basino su attività di stampo criminale (traffico di stupefacenti, racket delle estorsioni), quanto sulla rete finanziaria informale legata al micro-credito parallelo (donazioni, associazioni a sfondo sociale, centri culturali) e, infine, quanto possano contare su finanziatori esterni (organizzazioni caritatevoli, prestanome di ricchi magnati, fondi neri di governi).

In ogni caso, tutti questi elementi permettono di capire quanto il messaggio eversivo di matrice salafita sia diventato forte e diffuso nelle comunità islamiche disagiate delle periferie, aizzato ed alimentato dalla propaganda dello Stato Islamico e dalla sua straordinaria capacità di usare i social network e di imporsi come contro-cultura. Appare davvero preoccupante il fatto che questa interpretazione distorta e manipolata dell’Islam, propugnata da auto-dichiarati imam e presunti chierici senza alcuna formazione teologica riconosciuta, certificata ed attendibile, sia diventata la valvola di sfogo e la trappola ideologica del malcontento sociale e generazionale di alcune migliaia di musulmani europei. Le vecchie strutture, i vecchi canali di espressione del disagio risultano inadeguati, stantii e vetusti agli occhi di una generazione di giovani musulmani che, in mancanza di integrazione, scopre in un violento, distorto e conflittuale processo identitario il proprio percorso di esegesi politica.

La commistione di penetrazione ideologica jihadista, rete di facilitatori e sostenitori locali, stanzialità territoriale e sostegno di parte delle comunità islamiche nazionali permette di dipingere un fenomeno terroristico jihadista molto diverso dal recente passato. Infatti, se fino a pochi anni fa le cellule eversive potevano contare soltanto sulla solidarietà e i mezzi dei propri membri o di qualche operatore esterno, oggi dispongono di centinaia di persone disposte a contribuire, più o meno direttamente, alla causa. Questo vuol dire che, in Europa, lo Stato Islamico ha cominciato ad agire e ad avere la penetrazione sociale di gruppi politici come l’IRA (Irish Repubblican Army) nel Regno Unito, l’ETA (Paese Basco e Libertà) in Spagna, il PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) nelle province meridionali della Turchia, e criminali, come la Camorra nelle periferie di Napoli. In questo senso, la banlieue di Parigi o certe periferie di Bruxelles rappresentano per il terrorismo quello che i quartieri di Scampia e Secondigliano rappresentano per la Camorra.

Oltre al potere territoriale, a legare ETA, IRA, PKK e Camorra allo Stato Islamico è il comune rifiuto dell’autorità statale da parte dei suoi membri e dei suoi facilitatori, la preferenza accordata da parte della popolazione alla sovranità sostanziale di queste organizzazioni rispetto alla sovranità formale dello Stato di appartenenza, la frattura tra territorio e istituzioni. Tuttavia, appare doveroso sottolineare una importantissima differenza tra i gruppi indicati in precedenza e lo Stato Islamico o la militanza jihadista in generale: la dimensione culturale del conflitto. Infatti, la Camorra agisce a scopo di lucro, il PKK, l’ETA e l’IRA intendono modificare l’assetto politico di un Paese, ma non percepiscono una profonda divergenza culturale rispetto al potere centrale che contrastano. I curdi, musulmani come i turchi. non riconoscono il potere centrale di Ankara, i baschi non osteggiano la cultura spagnola, ma vogliono l’indipendenza da Madrid, i miliziani dell’IRA, pur nella dicotomia formale cattolici-protestanti, hanno nel conflitto per l’autodeterminazione e la secessione da Londra il cuore della propria campagna terroristica. Al contrario, nella militanza jihadista l’elemento religioso e culturale risultano centrali. Le cellule eversive islamiche e l’accessoria rete di facilitatori percepisce la propria profonda diversità dal resto del tessuto sociale nazionale. I terroristi belgi non intendono creare uno Stato indipendente dal Belgio, né lottano per l’autodeterminazione. Il loro obbiettivo è sovvertire completamente il sistema politico in cui vivono, imporre al resto della comunità le proprie regole, annichilire le altre culture, le altri fedi politiche e le altre confessioni religiose. L’obbiettivo del jihadismo è duplice: inibire le scelte di politica estera dei governi e imporre la propria visione politica a tutta la comunità del Paese di appartenenza. In questo senso, il messaggio totalizzante dello Stato Islamico rende la sua metodologia di terrorismo più simile a quella delle organizzazioni marxiste-leniniste.

Ovviamente, un simile processo affonda le proprie radici in decenni di proselitismo, propaganda e reclutamento silenziosi e costanti da parte delle reti jihadiste globali. Infatti, la proficuità della filiera terroristica belga è nota da tempo, sin dall’11 settembre 2011. Basti pensare alla provenienza belga di alcuni fra gli attentatori di Parigi (Bilal Hadfi era di Neder-over-Hembeek, piccolo centro del Belgio, i fratelli Brahim e Salah Abdeslam e Abdelhamid Abaaoud, l’ideatore degli attacchi, erano tutti e tre originari di Molenbeek-Saint-Jean), ai pianificatori degli attentati di Madrid nel 2004  (Mimoun Belhadj e Hassan el-Haski) e ad uno degli assassini di Ahmad Shah Massoud (il Leone del Panjshir), comandante dell’Alleanza del Nord durante la guerra civile afghana, il famigerato Abdessatar Dahmane. Infine, una esplicativa considerazione statistica: il Belgio è il Paese nel quale esiste la più alta proporzione di foreign fighters rispetto alla popolazione musulmana (600 combattenti su 700.000 cittadini complessivi).

Sulla base di questa concreta storiografia, non si può ignorare le gravi falle degli apparati di sicurezza belgi nella prevenzione e nella neutralizzazione delle organizzazioni jihadiste sul territorio nazionale. Il Belgio è stato colpito non solo per il richiamo propagandistico offerto dalla sua capitale, ma perché vulnerabile e caratterizzato da una rete jihadista che qui dispone di una struttura che non ha altrove.

Tuttavia, il caso del Belgio non deve far sottovalutare simili problematiche di sicurezza esistenti in altri Paesi europei. A parte la Francia e le sue turbolente periferie, sono i Balcani occidentali a preoccupare le istituzioni europee. Infatti, al pari del Belgio, Paesi come la Bosnia, il Kosovo e il Montenegro ospitano diffuse e radicate reti jihadiste autoctone, propense sia ad azioni interne sia ad attività dal forte richiamo internazionale, come la propaganda, il reclutamento di foreign fighters e l’organizzazione di attentati all’estero. Anche nei Balcani, come in Belgio, la questione identitaria, il malcontento sociale e la lotta politica eversiva si fondono nel calderone del jihadismo, facendone la più pericolosa manifestazione di dissenso e protesta della regione. In ogni caso, anche le periferie e le aeree rurali di Germania, Olanda, Paesi Scandinavi e Italia potrebbero non essere immuni alla proliferazione di un simile fenomeno. In sintesi, pur nelle proprie peculiarità sociali e nella diversa intensità nel grado si strutturazione, radicamento e radicalizzazione dei network jihadisti, nessun Paese europeo risulta essere a rischio “zero”.  

Di fronte ad una minaccia così complessa, sfaccettata e multi-dimensionale, molti sono gli interrogativi su quale possa essere la migliore strategia di contrasto. Un approccio meramente militare e securitario, le cui modalità potrebbero essere rese particolarmente dure dalle contingenze storiche e dall’inevitabile onda emotiva degli attentati, rischia di essere insufficiente se non affiancato da un ampio programma di inclusione sociale, poiché inasprirebbe la frattura sociale e lo scontro identitario alla base del foraggiamento del terrorismo. Dunque, occorre sottolineare come, in una simile situazione di emergenza, non si può prescindere dall’utilizzo di tutti i mezzi che la legge mette a disposizione per la prevenzione e la neutralizzazione della minaccia terroristica. Agli strumenti militari e di polizia occorrerebbe affiancare una lungimirante strategia politica e sociale di integrazione e dialogo con tutte quelle realtà che si sentono emarginate e subalterne rispetto alle classi dirigenti, ma che, al contempo, rifiutano ideologie estremiste. In questo senso, l’intelligence svolge e dovrà continuare a svolgere un ruolo centrale per comprendere i luoghi, le dinamiche ed i focolai di proliferazione dell’agenda terroristica. Innanzitutto a livello europeo, con la possibile creazione di un organo di coordinamento e condivisone di informazioni tra le diverse agenzie nazionali modellato sull’esempio del Comitato di Analisi Strategica Anti-Terrorismo (CASA) italiano. In secondo luogo, con una maggiore opera di infiltrazione delle comunità a rischio radicalizzazione al fine di individuare con rapidità ed efficacia gli individui e le reti a rischio di attività eversive.